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Su Giacomo Sferlazzo di Cinzia Amanti

Dalla tesi di Laurea "L'arte di Medea"

di Cinzia Amanti

Accademia Albertina di Belle Arti di Torino

Dipartimento di arti visive
Scuola di pittura

Anno Accademico 2015/2016
Sessione straordinaria di Marzo

Relatore Candidata
Prof.ssa Cristina GIUDICE

 

Titolare di cattedra: Prof. Arcangelo Esposito

Assistente di cattedra: Prof.ssa Laura Avondoglio

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GIACOMO SFERLAZZO


 

 


 

 


 


 

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Giacomo Sferlazzo nasce ad Anzio il 20/05/1980.

Cantautore e artista, impegnato nel sociale in una realtà particolare come quella di Lampedusa, crocevia tra Africa ed Europa ed ambita isola turistica. Si diploma al liceo artistico Eustachio Catalano a Palermo, dove fonda insieme ad altri musicisti ed intellettuali un gruppo di musica teatro “Le piume di piombo” in cui sperimenta sonorità elettriche inconsuete. Nel 2004 si trasferisce a Milano, dove frequenta il corso europeo di comunicazione e stampa artistica e partecipa alla collettiva “Segni nel tempo” nella galleria di  "Milarte".                                                                            Comincia a dedicarsi anche ad attività politico-sociali a Lampedusa, legate spesso all’organizzazione di eventi culturali, ma anche di forte critica e denuncia. Tra il 2008 ed il 2009 è coautore del soggetto, autore delle musiche ed attore protagonista dei cortometraggi “Il collezionista di sogni” e “Quello è mio fratello” di Salvatore Billeci. Il 24 gennaio 2009 è presente all’incontro/protesta tra immigrati e lampedusani, contro la realizzazione del CIE (centro di identificazione e espulsione). Tale giornata lo segna profondamente ed ispira la sua canzone più importante: “Lampedusa 24/01/2009”. Incide il suo primo disco “Il figlio di Abele”, composto da 11 brani inediti e interamente auto prodotto. Nel 2009 fonda con altri giovani lampedusani l’associazione culturale Askavusa, che organizza varie attività da sottolineare il Lampedusainfestival, concorso di cortometraggi e documentari sull’immigrazione e la multicultura di cui Giacomo sarà uno dei fondatori e il museo delle migrazioni di Lampedusa progetto che comincia nel 2009 e tutt’ora in fase di realizzazione. Un'altra importante iniziativa dell’associazione è il progetto, “Museo delle migrazioni di Lampedusa” , l’idea è quella di costituire un museo/centro studi sull’immigrazione, con gli oggetti dei migranti che i ragazzi dell’associazione Askavusa hanno raccolto in questi anni a Lampedusa, progetto che sta avendo grande attenzione sul piano internazionale. Il 2011 comincia con un altro mini tour stavolta in collaborazione con Addiopizzo. Giacomo Sferlazzo e “I figli di Abele” portano in Sicilia e Calabria il messaggio che l’associazione Siciliana da anni si impegna a divulgare, cioè il contrasto alla mafia attraverso le pratiche di consumo critico e la denuncia del “Pizzo” come atto di liberazione dalle organizzazioni criminali. Al termine del tour Giacomo ritorna a Lampedusa dove scoppia l’emergenza immigrati, con l’associazione Askavusa ricopre un ruolo importante per l’accoglienza e la controinformazione, la situazione di Lampedusa diventa un caso internazionale e il comportamento del governo che abbandona l’isola e i migranti a se stessi per un periodo lunghissimo spinge il cantautore ad andare a protestare a Roma davanti al palazzo del Senato e della Camera dei deputati, facendo uno sciopero della fame che durerà sei giorni e dipingendo una tela su Lampedusa che regalerà al termine dello sciopero alla comunità tunisina di Roma , durante un concerto per Lampedusa e i migranti. In quei giorni parteciperà ad un flash-mob davanti al Colosseo a Roma, organizzato dall’ARCI insieme agli Assalti Frontali. Tra Aprile e Maggio partecipa a vari concerti in varie zone d’Italia dalla Valle di Susa, luogo importantissimo di cui sposa la causa NO Tav, al concerto del 25 Aprile a Trento, fino ad altri concerti recentissimi della fiera del consumo critico di Addiopizzo e nel piccolo centro di cultura islamica AL QUDS di Palermo.

 

Dell'uomo e dell'artista.

Giacomo Sferlazzo è prima di tutto un uomo. Il suo esercizio dell'arte, infatti, esaurisce il proprio compito sul terreno della comunicazione e non gli assegna una specifica personalità di riferimento. Egli è attore, pittore, musicista, cantautore, scrittore, videomaker. Si direbbe che le sue pratiche artistiche siano assimilabili, sotto il profilo della ragion d'essere, a quelle dell'artifices medievale: prodotti del lavoro giustificati dalla loro funzionalità. Sferlazzo non si preoccupa di coltivare uno status artistico perché il suo interesse è rivolto all'incidenza degli effetti del suo lavoro, al loro peso sociale. “Attraverso il processo creativo l'individuo deve emanciparsi e condividere la sua esperienza per apportare dei cambiamenti positivi ad un'intera comunità,  altrimenti rischia di rimanere un semplice esercizio di stile.”[1] La pratica artistica di Sferlazzo mette in campo un'onestà imbarazzante. L'ingrediente comune di tutte le sue opere è l'esamina e la denuncia delle circostanze che impediscono un'umana emancipazione. Tanto alto è il valore morale dell'impegno assunto  dall'artista lampedusano, quanto a portata di mano risulta il riscontro nelle realtà quotidiane di chi si lascia compromettere dal lavoro di Sferlazzo. Perché la magia dell'arte non scende mai dall'alto e non scaturisce da formule astratte. Sferlazzo sottolinea la necessità e il dovere dell'artista di prendere posizione partendo dalla propria realtà,  il dovere di “assumersi la responsabilità del suo pensiero ed essere sensibile per capire cosa sta succedendo nel mondo che lo circonda. In più ha il dovere di prendere posizione per dare credibilità al suo lavoro[...]Niente nell'arte è mai apolitico: lo sforzo di una critica organica sui temi del mondo deve fare parte del processo creativo.”[2] Ma questo sforzo non può realizzarsi se non attraverso le micro pratiche quotidiane e relazionali. “[...]Si deve capire l'attualità, partendo da un'analisi della propria condizione. Partire dal proprio territorio, dalla propria vita, dalle proprie esperienze per capire di cosa ha bisogno la comunità.”[3] Sferlazzo non si allontana mai dalle implicazioni umane di qualsiasi atto espressivo, perché ciò determina un'assunzione di responsabilità che rende visibile la potenza di un gesto e interviene direttamente nell'autenticazione di realtà possibili. “[al collettivo Askavusa] arrivano tante proposte di collaborazione, ma spesso diciamo di no, specie quando si parte subito con mega progetti, senza conoscersi e senza avere fatto esperienza su cose piccole, come fare una cena insieme, scrivere uno striscione o un volantino, organizzare una piccola mostra o, più semplicemente, parlare.”[4] Sferlazzo mette sul campo se stesso come uomo e la tangibilità del suo operato non scaturisce dal suo ruolo di artista, quest'ultimo è accidentale. Prima di tutto è necessario misurarsi come destinatari di un progetto evolutivo, che sappia definire le basi su cui costruire un soggetto umano meritevole di abitare il pianeta, quello che Rosi Braidotti qualifica come soggetto postumano: “Il soggetto postumano nomade è materialista e vitalista, incarnato e interrelato – esso è sempre situato in qualche luogo – in sintonia con l'immanenza radicale della politica della collocazione[...].”[5] Sferlazzo aderisce a questo modello come uomo e in quanto artista.

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[1] Https//39null.com/blog/niente-nellarte-e-mai-apolitico

[2]  Ibidem

[3]  Ibidem

[4]  Ibidem

[5]R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma, 2014, p. 197


 

 


 


 

 

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G. Sferlazzo - Pensando a Bacon - olio su tela

Contro l'identità.


 

 


 


 

 

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G. Sferlazzo - Contro l’identità – (Tesserini d’identificazione rilasciati nel “Centro di detenzione per migranti di Lampedusa” e sabbia ) – 2014 - foto di Andrea Kunkl.

“Debord nel suo libro “La società dello spettacolo” del 1967, parlava di una società in cui il capitale stesso si era oggettivato nello spettacolo.[...] Dagli anni sessanta ad oggi i mezzi di comunicazione e le nuove tecnologie hanno portato questo processo ad un punto di non-ritorno. Insieme a questo le contraddizioni reali si sono spostate nei nuovi confini: luoghi militarizzati in cui si mette in scena “Lo spettacolo del confine” che ancora una volta è il capovolgimento del reale, la sua rimodulazione in realtà virtuale ad uso e consumo di massa. Masse di persone, spesso in fuga da guerre e dalla guerra del capitale, diventano allora eserciti di lavoratori di riserva, mediaticamente rovesciati, criminalizzati ed usati per stimolare la grande “paura europea” e le politiche sulla sicurezza oppure con una doppia contorsione possono diventare masse di “poveri cristi” da salvare, magari con navi militari e droni di ultima generazione. Se è nei confini, oggi, che le contraddizioni del reale emergono e dunque vengono capovolte nella spettacolarizzazione, è forse ai confini dello spettacolo che bisogna andare a cercare per trovare una chiave di lettura del mondo contemporaneo?”[1]

L'installazione “Contro l'identità” è la rappresentazione simbolica dei processi di falsificazione della realtà in uso nelle società di controllo. Uomini e donne le cui storie sono soffocate nel silenzio o, peggio ancora,  mistificate da una falsa narrazione, sono restituiti alla loro presenza, in un'operazione di riduzione e semplificazione, mediante un dispositivo di riconoscimento unilaterale. I tesserini d'identificazione, tutti uguali e di facile lettura, assegnano ad ogni individuo uno spazio sospeso, terra di nessuno che copre i volti e i nomi, immobilizzandolo in una condizione di standby che lo priva della possibilità di autogestire il proprio rapporto con la realtà circostante. Uomini e donne sono risucchiati in un flusso continuo, una sorta di spirale ipnotica, che non lascia intravedere un inizio e una fine, perché le cause e i rimedi di questo processo sono taciuti o, quantomeno, mascherati dalla speculazione politica e mediatica.  Poco importano i nomi e i volti, l'umano perviene alla sua falsificazione, affinché possa essere funzionale ad una gerarchia di valori imposta dall'alto.

L'indagine sulle identità aveva già costituito il soggetto di un'altra iniziativa di Giacomo Sferlazzo e del collettivo Askavusa, che ha portato alla costituzione del “Museo delle migrazioni di Lampedusa”. In esso sono esposti una varietà di oggetti appartenuti ai migranti e poi abbandonati nelle operazioni di sbarco. Sferlazzo cominciò a ispezionare i relitti delle imbarcazioni temporaneamente ammassati nel cimitero delle barche e di volta in volta raccoglieva e conservava gli oggetti che trovava. “La prima volta che andai al cimitero delle barche, stavo cercando, come spesso mi capitava di  fare, qualcosa che mi stupisse, nella spazzatura.[...]Quando per la prima volta trovai tra cumuli di legni tritati un pacchetto con lettere e foto e testi sacri. Era come avere trovato quello che per molto avevo cercato, avevo trovato la testimonianza di una umanità avvolta nel mistero della vita e forse il mistero stesso. Fu come essere partecipe della storia dell’umanità tutta, fu come avere scoperto le piramidi d’Egitto, come incamminarsi per una strada che alla fine ha una promessa di luce e liberazione, ma che mentre la percorri è intrisa di dolore e ingiustizia.”[2] Ma la posizione di Sferlazzo rispetto a questa esperienza non è quella del fratello compassionevole che coltiva empatia ed esaurisce il proprio contributo nell'ambito emozionale. “I limiti di una narrazione che si concentra sulle emozioni sono tanti ma in generale, se si tiene l’essere umano su una sfera puramente emozionale, diventa molto più facile condizionarlo. Non che le emozioni non siano importanti, anzi, ma molto spesso è più semplice condizionare una persona attraverso le emozioni e gli istinti, specie se non si hanno argomenti validi in termini politici e filosofici.”[3]

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[1]    https//siciliamigranti.blogspot.com/2016/06/ai-confini-dello-spettacolo-roma-la.html

[2]  https://giacomosferlazzoilfigliodiabele.wordpress.com/la-parola-e-bussola

[3] https//cafebabel.it/societa/.../voci-da-lampedusa-2-intervista-a-giacomo-sferlazzo.html


 

 


 


 

 

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Giacomo Sferlazzo nella discarica di Lampedusa - foto di Andrea Kunkl - 2010

Anche in questo caso Sferlazzo bypassa la banalità del senso comune e inquadra gli oggetti ritrovati in un'ottica politica, quali testimonianza di un tacere della storia epurata dai segni del vissuto per essere strumentalizzata dagli interessi del potere, “Nel fondo del mare si sedimentano gli scarti della storia e nel fondo della storia si sedimentano le rivendicazioni e le lotte degli strati subalterni della società, sopra questi il vocio delle rappresentazioni dominanti riesce a coprire il grido forte che dal fondo arriva. A volte, addirittura, di questo urlo se ne fa un canto addomesticato per le orecchie di chi ha spinto nel fondo i corpi degli oppressi,[...]Come le lettere che rimangono intraducibili nella loro totalità, che divengono più significanti nel loro essere inaccessibili attraverso il nostro linguaggio, il nostro alfabeto, la nostra cultura. Queste lettere rimandano ad un mistero e ad una risposta che va ascoltata al di là del loro significato immediato. Queste lettere si ascoltano con gli occhi, con la pelle, con i polmoni ma necessariamente con una presa di posizione.”[1]

Andare al di là dei significati immediati è la missione di Sferlazzo che seppur narrata con gli strumenti dell'arte,  ne travalica i confini e si tramuta in pratica socio-politica. Non si tratta di arte neutralizzata dalla politica, né di politica spettacolare, bensì, di un territorio di altra natura dove arte e politica condividono, insieme ad altri campi di ricerca, lo spazio di un nuovo soggetto, non scisso nella settorialità della conoscenza, ma in grado di indagare la realtà nelle sue molteplici letture

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[1]  [1] https://giacomosferlazzoilfigliodiabele.wordpress.com/blog


 

 


 


 

 

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